
Lasciatemi cantare
Una delle tante testimonianze pervenute da chi ha partecipato alla profondità del Benessere 2017
Lasciatemi cantare
La sala Europa è vuota. Terribilmente vuota.

Non ci sono più le sedie, il palco è stato smontato, tutto è stato sgomberato.
Il pavimento è un deserto di marmo. Oltre le vetrate, il buio della notte. L’algida aria dell’impianto di climatizzazione è l’unica presenza percettibile.
Nella sala accanto un musicista solitario improvvisa brani di successo italiani degli anni Ottanta per l’esclusiva gioia di alcuni anziani tedeschi seduti sui divanetti della hall.
Qualcuno di loro accenna un ballo, poi si risiede.
A un tratto mi assale un senso di malinconia, di tristezza, di mancanza di qualcosa, un disagio che dopo qualche minuto diventa un malessere quasi fisico. Intorno a me non c’è più niente.
Non riconosco più quell’ambiente, quegli spazi, non ritrovo più quell’atmosfera che soltanto poche ore prima sprigionava una potente e benefica energia.
L’evento di due giorni organizzato dalla fondazione Altre Parole intitolato “L’empatia e la bellezza collaterale” si è concluso nel primo pomeriggio.
Sento il bisogno di ripercorrere quei momenti. Mi siedo sul pavimento, in disparte, mi appoggio ad una parete della grande sala, incrocio le gambe.
Mi ritornano in mente tutti gli istanti vissuti, scorrono le immagini e capisco quello che per molti rimane ancora l’inspiegabile; centodue persone convenute nello stesso luogo, in vari spazi messi a disposizione dall’Hotel Millepini, ma che potremmo chiamare in qualsiasi altro modo, perché ciò non conta più, contano le centodue persone, una accanto all’altra a disegnare un’umanità nuova. Alcuni accompagnati, a volte sostenuti da un familiare, altri arriveranno soli e se ne andranno con l’intimo convincimento di essere meno soli.
Ci sono dei momenti di questi due giorni che si sono già cristallizzati nel cuore e nella memoria.
Ci sono le prime impressioni all’arrivo, di una sala Europa piena di persone, l’incrociarsi dei primi sguardi, occhi che parlano, che raccontano più di tante parole; tante persone, ognuna con la propria storia.
L’essere lì in quel momento ha un duplice significato: è un grido di aiuto, perché affrontare la faccenda non è facile. Ed è allo stesso tempo la dichiarazione di essere pronti a mettersi in gioco, ad azzerare tutto, a ripartire da capo per imparare nuovi codici e nuovi linguaggi, perché come mi ha insegnato qualcuno d’importante è dal nulla che nasce la persona.
Mi guardo attorno, incrocio sguardi, sorrisi e capisco che siamo tutti uguali, uniti da un filo rosso teso tra di noi, a volte fa paura, a volte è un’opportunità da non perdere. Siamo un filo rosso teso verso l’altro, per formare quello che ciascuno di noi da solo non potrebbe mai creare, un amalgama di umanità dalle potenzialità inaspettate, una sinergia di intenti, l’incontro empatico con l’altro.
Sono iscritto al laboratorio di musicoterapia. Mi ritrovo con il mio gruppo in un’altra sala. Inizia la musica, inizia il canto Dona Nobis Pacem. La voce della nostra maestra nella ripetizione di queste tre parole diventa un’orazione mantrica, in un crescendo che lentamente assume una potenza che scuote, che ti scuote, come l’onda del mare che si frange e libera tutta la sua forza sugli scogli in un incessante andare e venire.
E’ l’invito ad unirci al canto e quella singola voce diventa dopo pochi istanti un canto corale, dove ogni voce si fonde nell’altra per creare un’unica armonia. Ed è subito incanto, di una potenza straordinaria. Diventiamo vibrazioni in movimento, un flusso di note che raggiungono la parte più profonda di ognuno di noi, la risvegliano, la plasmano nuovamente. Ed è in quel momento che mi accorgo delle lacrime che scendono sul viso della signora seduta accanto a me. Gli occhi chiusi, il viso rigato da quelle lacrime. Chissà da quanto tempo aspettavano di scendere. Quanta bellezza in quelle lacrime.
Altre immagini mi assalgono. C’è la convivialità durante i pasti quando seduti allo stesso tavolo ci si scambia impressioni e stati d’animo.
C’è il risveglio muscolare dolce di Viet Tai Chi sulla terrazza all’aperto gremita all’inverosimile. Tutti hanno voglia di provare, la curiosità è tanta; mi ritrovo ad eseguire le sequenze accanto a un medico del reparto, lì in mezzo a tutti gli altri, spogliato del suo camice bianco. Immagine inedita. Immagine confortante.
Mi alzo dal pavimento, ho bisogno di sgranchirmi un po’ le gambe; mi muovo nello spazio al centro della grande sala e nel movimento circolare che eseguo ritrovo i due cerchi, uno grande che ne contiene uno più piccolo e rivivo il momento della restituzione collettiva e del confronto di gruppo in cui si condividono le esperienze vissute il giorno precedente. Alcune persone iniziano a prendere la parola, raccontano, si raccontano, si emozionano. L’emozione del singolo può diventare l’emozione di tutti. E’ bello ascoltarle perché nelle loro parole cha raccontano la loro storia c’è anche un po’ della mia storia e di quella degli altri. Alla fine mi resta la voglia di partecipare a tutti gli altri laboratori perché sono molte le strade per giungere all’empatia e ritrovare la bellezza.
Mi rendo conto che, forse per la prima volta, non siamo più soltanto uno stato di salute, degli umori alterati da una terapia, una prognosi, uno stadio. Siamo altro; ritorniamo ad essere persone, protagoniste, nella nostra totalità, a volte nella nostra essenza ferita ma persone. Ho scoperto che così come esistono molti medici e paramedici che quando ti guardano lo fanno allo stesso modo di come si getta un occhio a un cespuglio, ce ne sono degli altri, ancora pochi, che ti guardano con occhi diversi e ti ascoltano con il cuore. C’è qualcuno che è pronto ad ascoltarti, a dedicarti del tempo senza l’ansia di misurarlo. Un grande scrittore, autore di una grande opera ha scritto che è il tempo che tu saprai dedicare alla tua rosa che la renderà unica.
Sul mio cammino e su quello degli altri partecipanti all’evento che si è appena concluso si affacciano delle persone, medici, paramedici, psicologi diversi da tutti gli altri, che ci aiutano ad illuminare una strada buia, per ritrovare una nuova luce di speranza e di vita. Persone che hanno saputo conciliare la loro professione con la cultura del dono e della comprensione e lo fanno con uno slancio che parte dal cuore. Vorrei indagare i motivi che spingono questi professionisti illuminati ad occuparsi appieno della persona e non più soltanto della malattia. Per intanto mi limito ad osservarli e ad ascoltarli con ammirazione, stima e gratitudine infinita.
Le luci si spengono nella sala Europa. Sono le ultime note del musicista solitario. Gli ospiti tedeschi lasciano la hall e raggiungono le loro camere.
A giochi conclusi, provo il sentimento di essere meno solo.