Dott. Fernando Gaion
Presidente Fondazione
Presidente Fondazione
Quello di contribuire all’umanizzazione delle cure è l’obiettivo primario della Fondazione.
Se assumere posizioni estreme, in un senso o in un altro, può essere perlomeno inutile, non si può negare che oggi sia presente un rischio: quello di perdere di vista da parte del Sistema Sanitario la complessità dei valori della Persona malata.
Ripercorrere il cammino della storia ci aiuta a capire e a interpretare.
“Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente?” è stata la domanda alla base della “buona medicina” in un’epoca che possiamo definire pre-moderna, sostituita negli anni più vicini a noi da un quesito diverso: “quale trattamento rispetta i valori e l’autonomia delle scelte del malato?”.
Il principio di autonomia ha sostituito il principio di beneficità, il “buon paziente” è diventato partecipe, non più obbediente.
Oggi lo scenario è ulteriormente cambiato: un trattamento che ottimizza le risorse e “produce” un paziente/cliente soddisfatto è ciò che pare caratterizzare la buona medicina.
Il “contratto” tende a sostituire la “relazione di cura”, il valore dominante diviene il sacrosanto principio di equità, (oggi però non sempre compatibile con il problema della ristrettezza di risorse), l’obiettivo diventa la soddisfazione del cliente, anche con lo scopo di evitarne la migrazione verso realtà magari più “appealing”.
La Persona ammalata, il paziente (mi ostino a chiamarlo così e non cliente o esigente come fanno altri, non inteso come soggetto che porta pazienza verso ciò che viene proposto o imposto, ma nell’ accezione latina del termine “patior”, che significa “persona che soffre”), come si trova in un contesto di questo tipo?
Riporto alcune testimonianze dalla vita reale:
“…la malattia più temuta, il cancro, è entrata nella mia vita come un improvviso terremoto, portando paura, sconquasso, insicurezza…”
e ancora:
“… il difficile non è sopravvivere e guarire dal tumore al seno, ma sopravvivere alla vita e alla difficoltà che un cancro al seno comporta nella testa di una donna, per quanto riguarda il rapporto con il proprio corpo, con i figli, con il marito e la società…”
Basta un “contratto” per affrontare sentimenti così forti?
No, non basta, pur riconoscendo alla logica contrattuale alcuni aspetti di importanza e necessità.
Il ruolo della Fondazione è proprio quello di cercare di dare contributi utili al mondo sanitario e al mondo dei pazienti in una sfida complessa in cui la medicina stessa, nel suo progredire scientifico, non si è simmetricamente adeguata ai mutamenti di contesto sociale.
Il medico non può più essere solo la conseguenza di ciò che sa, ma è sempre più il risultato di ciò che è e di ciò che sa fare.
Il paziente, informato e consapevole, è chiamato ad essere, in sinergia e complementarietà con il medico, autore della propria cura.
Essere «autori» della cura significa dare il massimo spazio alla relazione fra malato e medico: è la relazione il luogo della conoscenza profonda, del confronto di vissuti ed opinioni, della scelta.
E cosa praticamente si impegna a fare la Fondazione?
Per il mondo sanitario, mettere in atto autonomamente e in collaborazione iniziative atte a favorire la Formazione, in particolare sui grandi temi della comunicazione e dell’ascolto, ricordando che per esercitare bene il mestiere può essere sufficiente applicare correttamente linee guida e protocolli appropriati ma per stabilire una vera relazione di cura, è necessario somministrare anche se stessi.
Per chi ha incontrato la malattia mettere in campo tutta una serie di iniziative che aiutino la persona ad esprimersi, a recuperare consapevolezza, a riappropriarsi di se stessi e di una vita che sembrava perduta in pochi attimi, ben sapendo che tutto ciò che aiuta la persona a riappropriarsi della propria vita è cura.
Promuovere l’incontro con il mondo dell’arte, sia esso rappresentato dalla pittura, dalla scrittura, dalla musica o altro, un mondo ricco di strumenti capaci di favorire l’espressione e l’elaborazione di pensieri e vissuti emozionali che non sarebbe possibile manifestare attraverso altre modalità.
Adoperarsi per modificare l’accoglienza dei luoghi di cura non solo dal punto di vista estetico-architettonico, ma anche sul piano organizzativo, in modo che il paziente, per quanto gli compete, possa esercitare un suo ruolo da protagonista e non solo di passivo fruitore di prestazioni.
Riporto, a conclusione, quanto apparso qualche anno fa in una rivista molto prestigiosa per il mondo medico, The Lancet:
“Durante i passati 40 anni la disumanizzazione della medicina è divenuta fin troppo evidente a tutti; nuove tecnologie hanno alterato la relazione tra medico e paziente; gli specialisti sanno sempre di più circa argomenti sempre più circoscritti (know more and more about less and less); i medici curano le malattie più che le persone; le università insegnano la scienza della medicina ma ne ignorano l’arte; la tecnologia medica ha distanziato la comprensione etica, e gli ospedali sono diventati labirinti impersonali”. *
Tutto ciò che possa favorire il superamento del disagio derivante da tali aspetti è, nella visione complessiva della Fondazione Altre Parole, la profondità del Benessere in Oncologia, la vera Umanizzazione delle cure.
* Cole, Carlin: The art of medicine, Lancet 2009; 374: 1414-15.